Le emissioni sono pari a quelle del Nepal o della Repubblica Centrafricana
L’Amazzonia viene divorata dai roghi per far largo alle coltivazioni di soia transgenica, ma anche dai garimpeiros, i cercatori d’oro che sono stati corresponsabili dello sterminio delle popolazioni indigene sia per gli attacchi diretti che per l’inquinamento dei fiumi che deriva dalla lavorazione dell’oro. Per questo e anche per le condizioni di sfruttamento minorile che caratterizzano molte delle miniere dei Paesi più poveri, il settore minerario specializzato nell’estrazione dell’oro non ha buona fama. Ma i bitcoin lo battono dal punto di vista dell’impatto climatico.
La loro impronta di carbonio è superiore a quella dell’estrazione dell’oro e quasi pari a quella del gas naturale, o dell’industria della carne bovina. A spiegarlo è una ricerca dell’Università del New Mexico, pubblicata sulla rivista Scientific Reports. In tutto, le emissioni del settore sono pari a quelle di uno Stato come il Nepal o la Repubblica Centrafricana.
Secondo gli economisti, il danno climatico causato negli ultimi cinque anni dalla produzione della valuta digitale ammonta in media al 35% del suo valore di mercato, con un picco dell’82% nel 2020. L’oro, a cui spesso il bitcoin è paragonato, impatta solo per il 4%. Cifre simili a quella delle criptovalute si registrano solo nell’industria della carne bovina (33%) e del gas naturale (46%).
Il danno sproporzionato per il clima si deve, affermano i ricercatori, al ‘mining proof-of-work’, cioè al processo informatico di verifica delle informazioni che consuma grandi quantità di elettricità. Buona parte di questa, il 64%, proviene da combustibili fossili, secondo l’indice più aggiornato sul mix energetico delle valute digitali dell’Università di Cambridge.